Iran, le proteste continuano

La protesta non tocca solo le grandi città e il tema del velo non è l’unico fattore scatenante

«Le rivolte in corso in Iran (che proseguono con continui sviluppi) hanno preso il via dopo l’uccisione di Mahsa Amini, curda iraniana, che era in viaggio in vacanza con la famiglia a Teheran». La storia è nota: è stata fermata dalla polizia morale  perché dal velo si scorgeva una ciocca di capelli. «Dalle testimonianze pare sia stata aggredita nei furgoni della polizia e che in quel momento abbia ricevuto un colpo. Arrivati alla caserma ha cercato di spiegare che si sentiva male, che aveva mal di testa: è caduta, le altre ragazze arrestate hanno tentato di avvertire la polizia; è stata infine chiamata un’ambulanza ma la ragazza è morta in ospedale per le percosse ricevute». A parlare è Shahrzad Yazdanpoor – il nome è di fantasia per ragioni di sicurezza – attivista iraniana, in contatto costante con il suo paese di origine lasciato vari anni fa, che ci aiuta a comprendere meglio le pieghe di quanto sta accadendo nella grande nazione medio orientale.

«La violenza gratuita e cieca della polizia ha esasperato la popolazione che subito è scesa in strada; la morte di Mahsa è stata la classica goccia che fa traboccare il vaso, come alle volte accade in situazioni simili: un episodio all’apparenza marginale fa venire giù tutto. Accanto alla gente comune si sono espressi a riguardo moltissimi personaggi famosi, molti più del solito, con coraggio. Ha fatto sentire la propria voce poi, e si tratta di un aspetto estremamente importante, la classe religiosa tradizionale del quietismo sciita, che sosteneva e sostiene tutt’ora la separazione fra Stato e religione, e che di solito non si esprimeva così chiaramente contro la teocrazia al potere, per ovvi motivi».

La rivolta ha preso dunque strada ovunque, in decine e decine di città, a prescindere dalle minoranze etniche e religiose: «È la prima volta che non c’è una grossa manifestazione a Teheran o a Mashhad, ma tante manifestazioni spontanee ovunque, e ciò sta complicando terribilmente la vita alla Sepah, le guardie rivoluzionarie, coloro che reggono il sistema del governo della repubblica islamica, con il compito di reprimere ogni manifestazione e attacco contro il sistema. Se la manifestazione è concentrata in un solo luogo la polizia può organizzarsi, darsi il cambio, spostarsi da una parte all’altra per bloccare facilmente e in fretta il dissenso, affinché non ve ne sia notizia. L’attuale situazione sta invece sfiancando le forze militari in una continua rincorsa a spegnere ogni focolaio di rivolta».

Sono i giovani a riempire le strade, giovani nati e cresciuti nella piena attuazione dei principi della rivoluzione islamica: «Questa è la generazione, nata a cavallo degli anni 2000, che dovrebbe rispondere agli ideali imposti dalla repubblica islamica, gli ideali del governo islamico ovviamente, del regime: invece i giovani protestano, senza nessuna distinzione etnica, linguistica e religiosa. È il fallimento del sistema ideologico ed educativo messo in atto in tutti questi anni».

In occidente il dibattito su quanto sta accadendo in Iran è ancora una volta ruotato soprattutto attorno al tema del velo. Ma è proprio così?

«Il velo influisce certamente ma è un simbolo. All’inizio della rivoluzione iraniana, (e non diciamo islamica, perché allora, nel 1979 erano tutti in piazza, e la rivoluzione fu abbondantemente laica e secolare nella composizione delle forze che la determinarono, e fu solo in seguito che la componente radicale prese il potere organizzando la repubblica islamica, tradendo, con la formazione di una repubblica teocratica senza precedenti, molte delle istanze che avevano portato milioni di persone a ribellarsi allo Scià) le donne che portavano comunque il velo per tradizione hanno continuato anche dopo la rivoluzione, parlo della maggioranza di donne delle fasce più tradizionali della società. Resta un gruppo di donne che ha dovuto portare il velo per poter vivere perché non è stato più possibile non indossarlo. Si tratta di un tassello della repressione. Ad esasperare la popolazione, i giovani soprattutto, sono gli arresti sommari, l’uso della violenza indiscriminata da parte delle forze di polizia».

Ecco che allora il velo diventa un’arma nelle mani dello stato per perpetrare ottusa violenza e richiesta di rispetto di stretti canoni religiosi: «Anche chi lo portava prima ha iniziato a sentirsi male, perché insieme all’obbligo del velo vede perdere molti altri diritti. Le donne non trovano lavoro, eppure sono loro ad affollare le università, e senza lavoro manca loro la possibilità di essere autonome, di uscire dal giogo del controllo violento patriarcale. Dunque a questione del velo c’è e non c’è, molte continuerebbero a portarlo; il punto è che con gli anni si è trasformato in uno strumento di potere contro le donne. Esisterebbe mai una repubblica islamica senza donne che portano il velo? Temo di no, perché si tratta di un calpestare continuo dei diritti delle donne, il che rende il sistema più controllabile. Per il resto la classe al potere spende una marea di denaro nel sistema dell’informazione, in spionaggio e nel controllo capillare dell’informazione. Insieme al velo quindi ci sono molte altre problematiche di un sistema di potere sclerotizzato. Oggi per la prima volta, il 16 settembre abbiamo potuto vedere una donna velata, e non mal velata, arrestata e picchiata soltanto per il gusto di farlo, e per la prima volta da tanti anni la rabbia della gente è arrivata alle stelle e il governo non ha saputo gestire più la rabbia, non è riuscita a sopprimere».

Sono presenti anche tanti uomini, soprattutto i giovani dicevamo, la generazione del 2000, che si ribellano contro le autorità, a partire da quelle scolastiche che tentano di sedare sul nascere le proteste. Come potrebbe organizzarsi la protesta come proposta magari politica?

«Chi potrebbe tirare le fila di questa situazione è il gruppo di detenuti politici, di attivisti, moltissimi dei quali arrestati fra il 2005 e il 2012, che si trova nel carcere di Evin; potrebbero essere loro dare una mano forte nel supportare la richiesta di cambiamento. In questo momento la repubblica islamica non ha la capacità di affrontare i manifestanti, non è riformabile nel suo nucleo più duro, perché nessuno rinuncia al potere, e i religiosi sono molto, molto miopi».

Da una decina d’anni tutta la grande area che va dal Nord Africa al Medio Oriente è attraversata da venti di rivolta contro i poteri costituiti, impegnati per lo più nell’intestardirsi a mantenere il potere ad ogni costo. Vede analogie, un filo comune?

«Queste manifestazioni non sono simili a quelle delle primavere arabe, nella mia opinione: in Nord Africa erano contro un sistema politico, marcio come lo è il nostro, ma per gli iraniani a mio avviso c’è di più: si tratta di un tema culturale, perché investe ogni aspetto del vivere, e va contro un sistema che si vuole indebolire culturalmente; deve cambiare il modo di pensare, di ragionare, e soprattutto deve finire la classe religiosa al potere. Questa è la differenza e la novità, tante persone, anche la classe religiosa tradizionale si esprime come il sistema pervasivo della repubblica islamica che pretende di controllare ogni aspetto della vita dei suoi cittadini. Non vogliono la fine solo di questi politici, ma proprio del sistema, “non vogliamo il re né la guida, al diavolo tutti i tiranni” si sente scandire per le strade. Una cosa è sicura, è caduta la barriera di paura: la repubblica islamica sta dimostrando che tutto quello che ha inculcato non funziona, i giovani non hanno più paura, non vogliono accettare di vivere un’esistenza limitata nei diritti e nelle possibilità».

Vede anche una colpa occidentale (conflitti indotti, invasioni, forniture di armi) in questo irrigidimento dell’islam nella regione?

«L’Iran è stato capace di pescare nel torbido, il governo ha ottenuto vantaggi o almeno ha pensato di ottenere vantaggi anche dall’embargo che ha inasprito certe situazioni, ha creato disagio economico, così come lo hanno fatto le guerre oltre confine, ma sono 40 anni che la situazione è questa e molte persone iraniane, una grossa fetta direi, semplicemente non sopporta più questa forma di governo. L’embargo offre l’alibi a ayatollah e politici di accusare della crisi gli Stati esteri, ma la situazione è grave da ben prima delle sanzioni. Anche nel tempo più buio dell’embargo il governo ha cercato di mantenere il suo sistema, non ha cambiato atteggiamento nei confronti del resto del mondo. L’Iran ha perso troppi soldi per mantenersi al potere, la responsabilità credo e sostengo sia quindi soprattutto dello stesso Iran. Anche gli embarghi sono responsabilità delle politiche di chi governa».

https://www.riforma.it/it/articolo/2022/10/20/iran-le-proteste-continuano


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