Uno dei cavalli di battaglia preferiti da tanti laicisti e razionalisti è che la religione sia una cosa da ignoranti. A loro dire solo i semplici e gli stolti possono continuare a credere nelle favole e nei miti della Bibbia, le persone colte e intelligenti invece si devono rivolgere al vero sapere, quello scientifico. Un concetto che risale almeno a inizio ’800, quando il positivista francese Comte propose la sua teoria evolutiva sui tre stadi del sapere: religione, filosofia, scienza. Dove il raggiungimento di ogni stadio avrebbe dovuto implicare l’abbandono dei precedenti. Per i sapienti contemporanei, se permane la religione è solo perché la gente non ha studiato abbastanza e/o non è abbastanza intelligente.
Questa la teoria. O meglio, l’ideologia. Che sarebbe suffragata da alcuni studi scientifici che mostrano una maggiore propensione all’ateismo per le nazioni caratterizzate da una migliore educazione, e dunque indirettamente con un maggiore quoziente intellettivo medio. Ma le cose stanno davvero così? No, a ben vedere. E si possono evidenziare tre motivi a favore di una correlazione positiva tra religione e intelligenza.
In primo luogo, quello che questi studi dimenticano (volontariamente?) è considerare gli altri fattori che possono entrare in gioco. Una nazione ricca, ad esempio, può dedicare maggiori risorse all’istruzione, venendo dunque caratterizzata da una cultura e da un QI medio più elevati. Allo stesso tempo la maggiore ricchezza può ottenere l’effetto di una minore religiosità (“è più facile che un cammello…”), la quale non deriva direttamente dalla maggiore cultura. È questa la strada intrapresa da un recente studio di sul tema, dal titolo (traduzione a senso) Le nazioni credenti sono più stupide? Critica della teoria sul nesso intelligenza-religiosità (2013), dove con “Intelligence-Religiosity Nexus” è sottintesa la natura negativa del nesso. I risultati dell’analisi compiuta su 99 nazioni mostrano che l’ateismo è correlato a fattori come l’avere un trascorso di dominio comunista, il maggiore reddito procapite, la libertà religiosa (di per sé positiva ma si pensi alle molte nazioni islamiche dove la religiosità è garantita e quasi imposta dallo stato), all’istruzione superiore (che può predisporre a un maggiore materialismo). Ma l’ateismo non risulta direttamente correlato in maniera significativa al QI medio.
In secondo luogo, analisi più specifiche condotte all’interno di contesti socio-culturali omogenei hanno restituito risultati che ancora falsificano l’ipotesi di un nesso negativo tra intelligenza e religione. È il caso dello studio del 2010 della Oxford University Press (di cui abbiamo già parlato) su circa 1.200 scienziati e accademici statunitensi, che ha trovato un 50% di affiliati a religioni e un altro 20% di “credenti a modo loro”. Percentuali tutto sommato elevate, molto distanti dalle piccole cifre che solitamente si sentono dire: p.es nell’Illusione di Dio, Dawkins riporta cifre come 3,3,%, 7%, arrivando a un 40% di scienziati “meno illustri” credenti (pp. 104-105).
In terzo luogo, il rapporto tra religione e intelligenza è positivo per quanto riguarda la formazione culturale in generale. Il Manuale di religione e salute (Oxford University Press, 2012), tra i molti aspetti esaminati, ha censito anche 11 studi che esaminano il rapporto tra credo religioso e rendimento scolastico. In tutti e 11 gli studi la correlazione è positiva: chi crede va meglio a scuola. Certo, in questo caso possono subentrare fattori intermedi che non riguardano propriamente le capacità intellettive: la religiosità è correlata a famiglie più stabili e calorose, che a loro volta privano i ragazzi di disagi nocivi, ed è anche correlata a maggiore impegno, spirito di sacrificio, capacità di relazioni sociali, tutti elementi che possono contribuire a una formazione più serena ed efficiente.
Fonte: uccronline.it
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