Il 15 dicembre scorso il Ministero della Salute ha pubblicato la Relazione contenente i dati definitivi relativi agli anni 2014 e 2015 sull’attuazione della L. 194/78, relazione trasmessa al Parlamento.
Nella Relazione si legge che “nel 2015 il numero di IVG è inferiore a 90.000, infatti sono state notificate dalle Regioni 87.639 IVG, una diminuzione del 9,3% rispetto al dato del 2014, pari a 96.578 (-6.0% rispetto al 2013, quando erano stati registrati 102.760 casi)”. Dati ufficiali ci dicono che nei primi dieci mesi del 2016 sono morti poco meno di 5mila migranti che tentavano di raggiungere l’Europa. In Siria si calcola che la guerra ha provocato nel 2015 circa 50mila vittime. Doveroso darne notizia ripetutamente sui media e ancor più doveroso indignarsi per queste vittime. E dei bambini abortiti chi parla, chi si indigna? Nessuno più da tempo, eppure solo in Italia il loro numero è ben superiore a qualsiasi guerra attualmente in atto sul globo terrestre. Il Ministero aggiunge: il “numero di IVG e? pari a circa il 20% del numero di nascite.” Eliminare l’aborto debellerebbe in un sol colpo il cosiddetto inverno demografico e farebbe esplodere una primavera di fiocchi azzurri e rosa.
Torniamo a quella terribile cifra: 87.639 bambini uccisi. Nella Relazione si evidenzia un calo rispetto agli altri anni, calo che arriva sin al 51% se lo si confronta con il 1983, anno in cui si è registrato il picco di abortività nel nostro Paese. Come si spiega questa flessione degli aborti chirurgici? Non di certo a motivo della 194: se una legge depenalizza una condotta state pur certi che il numero di persone che assumono quella condotta cresce (vedere cosa accadde negli States alla fine del proibizionismo e cosa accade in Olanda in tema di cannabis et similia). Non perché poi l’uso di pratiche contraccettive eviterebbe di incorrere in gravidanze indesiderate. Anzi la contraccezione porta all’aborto (cfr. R. Puccetti, I veleni della contraccezione, ESD, pp. 353-385; R. Puccetti – G. Carbone – V. Baldini, Pillole che uccidono, ESD, pp. 133- 142). I motivi sono altri. In primis perché il numero di donne in età fertile diminuisce: è noto che il nostro è un paese di vecchi. Inoltre il tasso di infertilità negli anni sta crescendo. E dunque meno concepimenti, meno nati, ma anche meno aborti.
In terzo luogo, ed è il motivo più rilevante, stiamo assistendo negli ultimi anni ad un’emigrazione abortiva: dall’aborto chirurgico a quello chimico, l’aborto in pillole tanto per intenderci. Infatti ai quei quasi 90mila aborti praticati in sala operatoria occorre aggiungere, secondo i dati ministeriali, più di 11mila aborti effettuati nel 2015 con la Ru486, i quali rappresentano più del 15% degli aborti chirurgici. Una percentuale poi in costante crescita negli anni. Non c’è solo la Ru486, ma anche la pillola dei cinque giorni dopo. A questo proposito lasciamo la penna alla stessa Relazione che così spiega l’apparente flessione del numero di aborti: “Il maggior decremento osservato nel 2015, in particolare tra il secondo e terzo trimestre, potrebbe essere almeno in parte collegato alla determina AIFA del 21 aprile 2015 (G.U. n.105 dell’8 maggio 2015), che elimina, per le maggiorenni, l’obbligo di prescrizione medica dell’Ulipristal acetato (ellaOne), contraccettivo d’emergenza meglio noto come ‘pillola dei 5 giorni dopo’. I dati delle vendite dell’Ulipristal acetato (ellaOne) mostrano infatti un incremento significativo nel 2015 rispetto agli anni precedenti (7?796 confezioni nel 2012, 11?915 nel 2013, 16?796 nel 2014 e 83?346 nel 2015).”
Stesso commento si appunta per il decremento dell’aborti chirurgici effettuati nel 2014. Quindi gli aborti non stanno diminuendo, semplicemente invece di usare l’aspiratore secondo la metodica Karman si usano le pillole. Dalla sala operatoria alla farmacia, soprattutto se si può abortire senza nemmeno parlare con un medico. Correttamente la Relazione non può indicarci quanti aborti sono stati effettuati con la pillola dei cinque giorno dopo perché non ad ogni assunzione corrisponde certamente un aborto (le ragazze, tra l’altro, la usano spesso solo perché temono di essere incinte, non perché ne sono sicure).
C’è poi da appuntare che la Relazione non fa parola della pillola del giorno dopo, la quale può avere effetti abortivi. Dato che vengono vendute circa 1.000 confezioni al giorno, il numero di criptoaborti potrebbe oscillare tra i 60 e 100mila. In breve diminuiranno pure gli aborti fatti in sala operatoria, ma il numero di aborti complessivi è quasi certamente in crescita e senza dubbio è ben maggiore rispetto a quei 90mila indicati dal Ministero.
Di aborto non muoiono solo i bambini, ma anche le donne. Per la prima volta dal 1978, vengono registrati nel 2014 due decessi non per aborto chirurgico, bensì per l’uso della RU486. In un caso la donna si è sottoposta ad aborto chirurgico, ma a causa della insufficiente dilatazione del collo dell’utero viene trattata a più riprese con prostaglandina, una dei due principi attivi della procedura abortiva con RU486. Nonostante questi interventi il feto non viene espulso e la donna decide di far ritorno a casa per poi essere di nuovo ricoverata in ospedale in condizioni allarmanti finchè sopraggiunge la morte. Un altro caso è accaduto in Piemonte: la donna assume la prima pillola della RU486 (mifepristone), torna a casa e secondo protocollo si ripresenta in ospedale dopo due giorni per assumere la secondo pillola (prostaglandina) e qui muore. La procura che ha indagato ha escluso qualsiasi responsabilità dei medici. Si muore quindi anche di pillole abortive, eppure il loro uso è in crescita e il fronte abortivo spinge per la sua diffusione.
Altro capitolo affrontato dalla Relazione ministeriale: l’obiezione di coscienza. Ne abbiamo parlato molte volte: pare che a causa del numero di obiettori nel nostro Paese non si riesca più abortire (magari fosse così). Da qui una massiccia campagna mediatica e giudiziale contro gli obiettori e l’obiezione di coscienza. La Relazione però ci dice altro. Innanzitutto, ahinoi, i tempi di attesa sono brevi e non serve andare a destra e a manca per poter abortire, ma basta recarsi il più delle volte nella clinica sotto casa: “in generale sono in diminuzione i tempi di attesa, pur persistendo una non trascurabile variabilità fra le regioni; la mobilità fra le regioni e province è in linea con quella di altri servizi del Servizio Sanitario Nazionale”. In secondo luogo il carico di lavoro (sporco) del medico abortista è davvero minimo: “Riguardo l’esercizio dell’obiezione di coscienza e l’accesso ai servizi IVG, si conferma quanto osservato nelle precedenti relazioni al Parlamento: su base regionale e, per quanto riguarda i carichi di lavoro per ciascun ginecologo non obiettore, anche su base sub-regionale, non emergono criticità nei servizi di IVG.”
Più in particolare si fa notare che “valutando le IVG settimanali a carico di ciascun ginecologo non obiettore, considerando 44 settimane lavorative in un anno, a livello nazionale ogni non obiettore ne effettua 1.6 a settimana”. E teniamo in considerazione che per effettuare un aborto un medico impiega meno di venti minuti. Il dato indicato dal Ministero è quasi ovvio. Infatti negli anni il numero di medici abortisti è praticamente rimasto invariato, ma il numero di aborti chirurgici, come già illustrato, è in ostante decrescita. Quindi la conclusione è scontata: meno lavoro per ogni medico abortista. C’è così poco lavoro che addirittura, ed è la prima volta che il Ministero ci offre questo dato, “in undici regioni italiane una quota di ginecologi non obiettori, corrispondente all’11% a livello nazionale, non è assegnata ai servizi IVG dalle Regioni”. Avete letto bene. Altro che impossibilità ad abortire per le donne a causa dei medici obiettori. Un medico abortista su 10 in metà delle regioni italiane non pratica aborti perché non c’è bisogno, perché sono più che sufficienti i suoi colleghi a compiere l’ordinaria mattanza di Stato.
di Tommaso Scandroglio | Lanuovabq.it
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